Il precariato visto dai
precari Ormai da anni, osservando dibattiti politici in televisioni o leggendo una qualsiasi rivista, è sempre meno raro imbattersi in discorsi riguardanti la flessibilità nel mondo del lavoro. Sempre più persone, inoltre, vivono sulle loro spalle questa precarizzazione crescente. Chi sono, nel nostro Paese, i “precari”? Soprattutto giovani, donne ed immigrati. In un lungo lavoro di ricerca, ho cercato di aggiungere un mio piccolo contributo all’argomento. In particolare, ho cercato di individuare le relazioni esistenti tra precariato e motivazione. Per farlo, ho preparato dei questionari che ho somministrato ad alcuni lavoratori (certi a tempo indeterminato, altri con un contratto a termine) di quattro aziende: due manifatturiere medio-piccole, ossia la Cassetto Srl e la Bimotor SpA, la SKF di Airasca e la società assicurativa Reale Mutua. Passiamo ora ad analizzare, molto sinteticamente, alcune delle considerazioni più rilevanti emerse. Innanzi tutto bisogna precisare che iniziare un lavoro con un contratto atipico è oggi considerato come la normalità. Anzi, la mia ricerca ha dimostrato abbastanza chiaramente come l’accedere a un contesto aziendale con un contratto a termine comporta un consistente aumento della voglia di apprendere (rispetto a chi entra direttamente con un contratto stabile), che si rafforzerà nel lavoratore una volta ricevuta la conferma a tempo indeterminato. Chi ha un contratto atipico, forse per una sorta di “auto convincimento” ha un’idea migliore circa la flessibilità rispetto a chi possiede un contratto a tempo indeterminato. Più interessante, però, è notare la dinamica di tale convinzione: con l’avanzare dell’età anagrafica il bisogno di un lavoro stabile diviene sempre più forte. Si può senz’altro concludere che dopo i 30 anni il lavoro a termine viene vissuto non come un’opportunità, bensì come una poca serenità e una minaccia ai propri diritti. D’altronde, come si può progettare di formare una famiglia senza la certezza di un reddito? Anche il progredire dell’anzianità lavorativa con un contratto precario fa decrescere notevolmente la motivazione. Se, come si è già chiarito, si accetta favorevolmente di accedere al mondo del lavoro con un contratto a termine, altrettanto forte e pressoché universale è il rifiuto per continui rinnovi a scadenza. Insomma, una volta finito il primo periodo ci si aspetta la conferma a tempo indeterminato e non un ulteriore rinnovo a termine. Pratica, purtroppo, molto frequente in alcune aziende che preferiscono sfruttare questa spada di Damocle contro i lavoratori. L’idea sulla precarietà è influenzata anche dal titolo di studio: mediamente, infatti, i laureati hanno un’opinione più favorevole. Forse si sentono più forti delle loro conoscenze e non temono di non riuscire a inserirsi stabilmente nel mondo del lavoro. Inoltre, per molti di essi – specie appena dopo la laurea – l’obiettivo più grande risulta quello di svolgere un’attività attinente al titolo di studio conseguito. Passati gli anni, spesso anche i laureati iniziano a desiderare ardentemente un posto fisso: hanno voglia di formare una famiglia e capiscono che le loro conoscenze, per quanto approfondite, stanno diventando obsolete. Inoltre, ad un certo punto si inizia anche a pensare alla pensione che, con contratti atipici, appare particolarmente lontana ed economicamente preoccupante. Da un punto di vista sociologico, è stato molto interessante notare come i lavoratori atipici abbiano espresso un energico auspicio di “fare lo stesso lavoro, per specializzarsi e ricoprire un ruolo in azienda e nella società”. Un bisogno poderoso, che spesso viene trascurato quando si discute del precariato: svolgere un’attività è un qualcosa di fondamentale per la nostra società, che riguarda l’identità delle persone. Lo stesso termine società deriva dal latino societas (da socius, compagno) e significa “mettere in comune”. Gli uomini hanno capito fin dall’antichità che è molto più comodo e appagante vivere assieme: in questo modo si possono soddisfare meglio i propri bisogni sia individuali che sociali (stare assieme ai nostri simili). Una società funziona se è accettata dagli individui che la compongono, che devono rispettare il ruolo che la società ha affidato loro. Da domani potremmo decidere tutti di non accettare più quest'ordine sociale: lo studente non studierà, il medico non si recherà in ospedale e l'imprenditore non andrà ad aprire i cancelli della sua ditta. Sarebbe una scelta che aprirebbe scenari potenzialmente apocalittici per la quale probabilmente non opteremo perché sappiamo che avremmo molto più da rimetterci che da guadagnarci: se è vero che potremmo non lavorare più, è anche vero che non troveremmo più assistenza medica, non troveremmo più nessuno disposto a venderci il pane e l'ordine pubblico rimarrebbe solo un ricordo. Ma la società è anche molto di più: è riconoscimento sociale. "Gli altri" mi riconoscono come un medico: così anche io, in un certo senso, so chi sono e so che ruolo devo ricoprire. Ora, è evidente che questo riconoscimento può essere quanto meno messo in discussione se si rimane precari a vita. Cosa si potrà scrivere nella propria carta di identità sotto la voce “professione”? Beppe Capozzolo [Per commenti all'articolo: tasso@fisac.net] |
Beppe Capozzolo
Lo stesso termine società deriva dal latino societas (da socius, compagno) e significa “mettere in comune”. Gli uomini hanno capito fin dall’antichità che è molto più comodo e appagante vivere assieme: in questo modo si possono soddisfare meglio i propri bisogni sia individuali che sociali (stare assieme ai nostri simili). |
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marzo 2009 -
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