In attesa del terzo sequel, previsto per il 2009, la recensione di 28 giorni dopo Danny Boyle lo conosciamo soprattutto per aver girato l’acclamatissimo “Trainspotting” e il criticatissimo “The Beach”. A metà, nell’opinione dei critici, si pone questo lavoro di qualche anno fa (2003): non vi è una grande o sofisticata storia alle spalle, la trama non è sbalorditiva, se non a piccoli tratti; e non è infatti questo a colpire in questo film. Londra: animalisti attivisti liberano un gruppo di scimmie infette dalla loro condizione di prigionia, nonostante fossero stati avvertiti dei possibili contagi. Londra, 28 giorni dopo: il protagonista Jim (un allora quasi sconosciuto Cillian Murphy) si sveglia dal coma. Ospedale vuoto e caos. Fuori, strade vuote e caos. Qui inizia la più che classica saga del superstite che fugge dagli infetti/morti viventi (un vero omaggio, anche negli effetti e in alcune scene “cult”, al grande maestro del genere: George A. Romero). I pochi “sani” si uniscono, nell’intramontabile vizio tutto umano di unirsi nei momenti difficili. Raggiungono, dopo innumerevoli sforzi, seguendo un messaggio radio, un gruppo di militari che offre loro una possibile salvezza. La trama è quasi tutta qui: non ci sono grosse spiegazioni (non sappiamo nulla del virus né della sua propagazione, non conosciamo numeri né stime, non vediamo nessuno che non siano i protagonisti o i militari o gli infetti inglesi, nessun discorso del presidente né della Regina). Viviamo l’ignoranza del protagonista che invero ci catapulta in un'altra realtà: proprio questo dissacramento delle certezze, a cui i classici film d’azione/catastrofici americani ci hanno abituati, è il fulcro del film. Non passano per nulla inosservate, come al solito dinnanzi alla grandezza degli effetti o alla storia “strappalacrime” di turno, tutte le contraddizioni, gli eccessi, le falsità, l’egoismo, la violenza, il sapersi dare degli alibi per giustificare azioni altrimenti intollerabili, l’immancabile pensiero del sesso e della necessità di riprodursi al fine di non far finire la specie (da questo pensiero scaturiscono tra le più cruente scene del film), la necessità umana di porsi degli obiettivi per quanto lontani e pericolosi, l’impossibilità di immaginare la propria sopravvivenza in un mondo vuoto, senza altri umani con cui aggregarsi… pensiero tanto impossibile da paventare, piuttosto, l’ipotesi del suicidio. Invece che fortunati sopravvissuti, i protagonisti sono disperati infetti nell’animo. Poi il finale del film ci propone questa riflessione: e se ci accorgessimo che non tutto il mondo è in crisi, ma solo la realtà attorno a noi? Le nostre emozioni e azioni non risulterebbero semplicemente ingiustificabili ed esagerate? D'altronde la Gran Bretagna – infetta - è solo un’isolona… il Mondo è ben più grande. Un’attenzione ad aspetti sempre citati ma mai approfonditi, in un’era di fin troppo facile approccio alla disperazione. Questo è il cuore, bello e profondo, del film. Ilaria Membrino [Per commenti all'articolo: tasso@fisac.net] |
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marzo 2009 -
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