Nuove strade per superare
una crisi strutturale Un paio di settimane fa Marchionne ha gettato un enorme masso nello stagno del dibattito italiano sulla crisi. Il fulcro del suo ragionamento è noto: il rapporto tra costi e produttività in Italia è così svantaggioso per FIAT che sarebbe preferibile per l’azienda lasciare del tutto il nostro paese. L’affermazione, nella sua dogmaticità, sembra fatta apposta per scatenare polemiche, creare fazioni di sostenitori e detrattori, in buona sostanza per radicalizzare le posizioni e impedire un ragionamento serio e ponderato (orrida parolaccia) sulla reale situazione. Uno sport (la radicalizzazione urlata) peraltro molto popolare in Italia e che di solito consente al potente di turno di proseguire indisturbato lungo la strada scelta. Vediamo se dal nostro insignificante cantuccio possiamo provare invece a sostituire le urla e gli slogan con qualche abbozzo di ragionamento. Per fare ciò bisogna innanzitutto sgomberare dal campo la questione se Marchionne sia un perverso affamatore della classe operaia o un benefattore salvatore del sistema Italia. Marchionne non è né una cosa né l’altra. E’ “semplicemente” l’AD di FIAT e come tale persegue il suo compito: migliorare il più possibile i conti dell’azienda per remunerare al massimo gli azionisti. Se assumiamo questo come un fatto (e credo che sia difficile contestarlo), allora ci appare evidente che la scelta di FIAT di restare in Italia non sia legata a una qualche forma di filantropia o di obbligo morale(!?!!) a seguito dei sostegni statali ricevuti negli anni, ma più semplicemente perché l’immediata dismissione di tutti gli impianti produttivi italiani e la contestuale apertura all’estero di un uguale numero di impianti non è economicamente appetibile. FIAT è costretta dalla sua struttura produttiva e dai costi che dovrebbe sostenere per smontare le linee di produzione dall’Italia e rimontarle all’estero a restare in Italia. Andarsene improvvisamente e del tutto semplicemente non è un’opzione praticabile. Almeno per un certo numero di anni. Ed è proprio questa la questione: qual è il vero scopo di FIAT rispetto al suo impegno in Italia? Si tratta di un impegno a breve, 5/6 anni, per completare il ciclo di vita dei suoi impianti e nel frattempo spostarsi verso luoghi di produzione più convenienti o si tratta di un impegno a lungo termine, che prevede ricerca e sviluppo? Purtroppo le dichiarazioni di Marchionne sembrano far propendere per la prima ipotesi. Infatti l’accanita insistenza sul deficit di produttività (intesa ovviamente come redditività) degli stabilimenti italiani non tiene conto del fatto che l’auto è, nel suo complesso, un prodotto più che maturo; peraltro all’interno di questo segmento appunto maturo FIAT destina all’Italia la produzione dei suoi modelli più vecchi e quindi a più basso valore aggiunto. Ad esempio è abbastanza evidente che l’incommensurabilmente più alta redditività di chi produce una Ferrari rispetto a chi produce una Multipla è legato solo in piccola parte alle virtù dell’operaio e moltissimo all’appetibilità del prodotto. Insomma Marchionne proprio mentre predica il cambiamento, la necessità di introdurre nuove regole e nuova cultura aziendale sembra invece imboccare la solita strada. Fare quello che si è sempre fatto: produrre le stesse auto che hanno già saturato il mercato, utilizzando le stesse metodologie, solo pagando meno chi le fa. Ma se è così, è ovvio che il sistema Italia non è e non potrà mai essere competitivo sui costi con Polonia e Brasile: comprimere i costi (salari e diritti degli operai) potrà dare un po’ di fiato agli utili di FIAT, ma in modo del tutto insufficiente per quantità e durabilità nel tempo rispetto alle aspettative aziendali. Ovvero per gli operai accettare le nuove politiche salariali e contrattuali di Marchionne non solo significa rimetterci nell’immediato (opzione dolorosa, ma che potrebbe essere discussa), ma – cosa ben più grave – significa rimetterci senza prospettiva, trascinandosi al ribasso solo per il tempo necessario a FIAT di completare il ciclo vitale dei suoi impianti. La chiusura di Termini Imerese insegna. Marchionne sa molto bene che non potrà comprimere i costi italiani sino a renderli competitivi con quelli dei paesi emergenti, ma ugualmente insiste sempre e solo sulla questione dei costi. Nulla viene detto sulla creazione di produzioni innovative, competitive sul versante dei ricavi. Forse non lo fa perché questa strada non è (ancora?) alla portata. O forse, più probabilmente, non lo fa perché davvero non è un bravo manager e non riesce a ricollocare la sua azienda sul binario dell’innovazione dei prodotti, preferendo la più facile strada della delocalizzazione. In ogni caso la soluzione costi non è praticabile in Italia. Non in maniera risolutiva e sostenibile. Su tutto questo incombe l’assoluta ignavia del governo che tutto fa tranne occuparsi di mettere in atto politiche di reale sostegno alla produttività. Le piccole e medie aziende di questo paese stanno delocalizzando, non in Cina o Serbia, ma in Svizzera dove il costo del lavoro non è certamente inferiore a quello italiano, ma dove vengono realizzati distretti industriali con infrastrutture dedicate, azzeramento della burocrazia e tassazione agevolata collegata alla creazione di nuovi posti di lavoro. In Italia invece il dibattito politico si concentra su chi e quando debba staccare la spina al Governo. Intanto è il Governo che sta staccando la spina al paese. E il sindacato che cosa deve fare in questa situazione? La risposta non è semplice. Il sindacato, se davvero vuole fare il suo dovere, è sempre chiamato a un atteggiamento di concretezza. Ogni posto di lavoro perso è un dramma, una famiglia in difficoltà, un mattoncino del sistema che si sgretola. Ridurre le uscite dal lavoro e riuscire a reinserire quanti ne sono stati espulsi è fondamentale. Ma questo può avvenire a qualunque costo? Qual è il punto di equilibrio tra il sacrosanto e incomprimibile diritto del singolo a conservare nell’immediato un posto di lavoro pur che sia e l’esigenza generale di ricollocare il paese su attività innovative che consentano di fronteggiare una crisi che – ormai lo sappiamo bene – non è congiunturale, ma strutturale? E’ funzionale alla ripresa del sistema il mantenimento di un lavoro, non solo con meno diritti e meno salario, ma anche e soprattutto senza prospettive? Di più: è funzionale ai singoli la conservazione di un lavoro unicamente sulla base di una compressione dei costi che per quanto feroce non diventerà mai realmente concorrenziale con i paesi in via di sviluppo? Quanto a lungo potrà durare il loro specifico posto di lavoro su queste basi? Secondo noi le risposte a questi interrogativi purtroppo sono negative. Un sistema di questo genere non offre prospettive né al sistema, né agli individui. Tutto questo però non può diventare un alibi per la rassegnazione. Dicevamo all’inizio che il nostro è un punto di osservazione molto marginale. Eppure anche dal nostro insignificante cantuccio qualcosa si può fare. Alcuni giorni fa come Sindacato abbiamo incontrato il nuovo Direttore dell’Area Torino, Provincia e Valle d’Aosta. E’ stata l’occasione per fare alcuni riflessioni sulla situazione aziendale e del territorio. Come FISAC abbiamo voluto sottolineare in particolare il ruolo che la nostra azienda deve avere in un territorio come il nostro. Un ruolo di volano positivo per l’economia e di reale vicinanza a quel settore produttivo fatto di piccole e medie aziende che spesso rappresentano punte di eccellenza nazionale internazionale. La capacità di fare credito con oculatezza, secondo parametri di solvibilità e di rispetto delle regole di Basilea 3 non deve essere confusa con una visione ristretta e mortificante di quegli imprenditori che sono realmente in grado di fare innovazione e quindi di dare prospettive occupazionali durature e stabili. E’ una sfida difficile, ma alla quale non è possibile sottrarsi. Anche questo sarà uno dei terreni sui quali ci confronteremo con la nostra Area. Paolo Barrera [Per commenti all'articolo: tasso@fisac.net] |
Paolo Barrera
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Tasso - ver.3.0 n.05 -
novembre 2010 -
FISAC/CGIL ISP
Liguria Piemonte Val d'Aosta -
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