Cambiare il cambiamento?
Questa volta la Redazione del Tasso ha deciso un argomento comune su cui scrivere: il futuro. Una cosetta da niente, insomma.
Per come la vedo io, il futuro ha soprattutto una caratteristica: quella di essere sempre diverso da come te l’eri immaginato. Ad esempio, per restare nell’ambito della nostra azienda, fino a pochissimo tempo fa il tema su cui sembrava dovessimo misurarci tutti era quello della flessibilità e della managerialità. Per anni ci hanno raccontato che si doveva uscire dagli schemi, che era importante conoscere il cliente, che per “indirizzarlo” verso ciò che serviva alla banca bisognava comunque capire le sue esigenze, che la possibilità di spendere al lavoro il proprio pensiero creativo era parte del processo di realizzazione non solo degli obiettivi aziendali, ma del proprio percorso professionale. Era l’epoca del “problem solving”
Poi, praticamente dalla sera alla mattina, è arrivata la stagione del “metodo”. Non solo la flessibilità non era più richiesta, ma era proprio diventata il nemico. Il cliente non deve più essere “conosciuto”, ma “contattato”: la differenza è sottile, ma determinante. I modi e i tempi con cui contattare i clienti sono stati standardizzati fino alle estreme conseguenze. In un crescente parossismo, i sistemi di valutazione (individuale e di gruppo di lavoro) sono stati collegati all’esecuzione del “metodo”, in misura persino prevalente rispetto al raggiungimento dei vari budget.
Insomma, senza ombra di dubbio il futuro in cui avremmo dovuto lavorare creativamente si è trasformato nel presente della pura esecuzione standardizzata. Personalmente credo che questo giochi un ruolo non secondario nella questione delle “pressioni commerciali”. Voglio dire: i budget ci sono sempre stati e spesso anche nel passato sono stati più o meno irraggiungibili, ma mai si era registrata una tale e diffusa avversione verso il proprio lavoro e gli obiettivi collegati. Credo che tale ripulsa non sia completamente spiegabile “solo” con il sovraccarico di incombenze, le difficoltà del mercato, l’innalzamento dell’età media della compagine lavorativa, le riconversioni forzose, le modalità di gestione da parte dei capi. Tutti questi fattori esistono e concorrono a generare il clima pesante in cui ci muoviamo. Ma non sono sufficienti da soli a determinarlo in misura così grave e diffusa. Per spiegarlo davvero occorre aggiungere il senso di straniamento, di vera e propria esclusione emotiva da quello a cui si viene chiamati. Come se il nostro operato, inteso come contributo “intelligente”, fosse considerato nei fatti ininfluente se non addirittura dannoso.
Era da un po’ che queste riflessioni mi frullavano per la testa, ma non le avevo del tutto razionalizzate. L’occasione per metterle un po’ in ordine mi è venuta dall’ultimo polo dei Direttori, in cui sono state distribuite una serie di slide che facevano il punto sulla situazione generale e poi evidenziavano la notevole distanza tra i risultati in corso e il budget previsto. Inoltre veniva dato conto di come un certo numero di filiali che erano state “messe sotto osservazione” nei mesi precedenti avessero sensibilmente migliorato le loro performance a seguito di un “piano di azione” e che quindi si sarebbe proceduto a metterne sotto osservazione un certo numero di altre. Incuriosito non tanto da cosa significasse “mettere sotto osservazione” (che mi sembrava molto chiaro), ma in cosa consistesse il “piano di azione”, ho scambiato quattro chiacchiere con un po’ di Direttori. Ho chiesto se i vari responsabili studiavano e proponevano un piano di intervento personalizzato rispetto alle diverse caratteristiche di ciascuna filiale (sulla base ad esempio del dimensionamento, delle caratteristiche della clientela, o dei KPI specifici da rafforzare) o se invece veniva proposto un intervento più standardizzato, ma comunque modulabile in base alle esigenze specifiche di ciascun punto operativo. Mi è stato risposto che in realtà il “piano di azione” non è altro che il mandato di intervenire per riallineare i parametri operativi a quelli previsti dal “metodo”. In altre parole non solo non c’è nessun piano “B”, ma in realtà non c’è proprio nessun piano. Perché il metodo è il piano: se tutti lo seguiranno fedelmente i risultati verranno da sé.
In questo contesto la managerialità dei Direttori di Area si manifesta nella capacità contabile di far “quadrare” gli appuntamenti previsti con i risultati ottenuti, quella dei Direttori di Filale nel trovare un modo accettabile di filtrare con i propri collaboratori gli imput più o meno isterici che per primi ricevono dai propri superiori, quella dei Gestori nel gestire (appunto) la mancanza di senso che vivono rispetto alla propria professionalità.
Uno scenario estremamente preoccupante. In primis per i colleghi che lo vivono. Ma anche per il Sindacato che deve iniziare a porsi alcune (nuove) domande rispetto alle pressioni commerciali, probabilmente smettendo di pensare che l’unica soluzione possibile sia quella di reprimere i comportamenti eccessivi di alcuni Direttori di Filiale (o al massimo di Area). La repressione efficace dei comportamenti individuali sanzionabili è certamente fondamentale, ma non può essere realmente risolutiva a meno che ci si accontenti di intervenire su quelli che in fondo sono a loro volta “effetti” e non “cause” di un approccio sbagliato alla vendita. E infine, ma non certo per ultimo, per l’Azienda stessa che dovrebbe sciogliere quanto prima una serie di contraddizioni. A incominciare da quella tra la campagna “Ugo Robot” (che sembra voler stigmatizzare il finto iperefficientismo ottuso e distruttivo) e la realtà dei “piani di azione” (basati unicamente sull’applicazione ottusa e distruttiva – robotizzata, appunto – di sua maestà il “metodo”).
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Articolo di Paolo Barrera
barrera@fisac.net
lunedì 10 ottobre 2016 - Paolo Barrera -
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Ne approfitto per una precisazione. La casella iosegnalo non è inutile o dannosa in sé. Bisogna però farne un uso coerente con il suo scopo, che è unicamente quello di segnalare eventuali comportamenti distorti messi in atto dal proprio superiore gerarchico (diretto o indiretto). Purtroppo tali comportamenti ci sono e talvolta non sono spiegabili semplicemente con il clima generale: capi incompetenti e/o aggressivi e vessatori ne sempre esistiti e sempre ne esisteranno. I loro atteggiamenti non sono giustificabili e vanno stroncati con fermezza. Per contro, come ho cercato di argomentare nell’articolo, non tutta la pesantezza del clima aziendale può essere derubricata a comportamenti deviati individuali. Anzi, molto spesso è vero il contrario.
Quindi in conclusione bisogna agire su tutti i fronti, spendendo gli strumenti più appropriati caso per caso.
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hai perfettamente ragione, per questo non e’ da utilizzare io segnalo( se viene segnalata la filiale come avevo capito io…. ). il problema sta molto piu’ in alto del nostro direttore di filiale o di area.