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28 giugno 2011: una data controversa

accordorappresentanza1Si sono da poco concluse le assemblee degli iscritti Fisac-CGIL, nelle quali abbiamo presentato e portato in votazione le due tesi contrapposte: “Il Lavoro decide il futuro” e “Il Sindacato è un’altra cosa”.

Con questo mio articolo non intendo entrare nel merito dei due documenti, né dal punto di visto dei contenuti né, tantomeno, dal punto di vista politico.

Quello che vorrei tentare di fare è una riflessione, con un approccio di tipo  “giornalistico” (e uso questo termine con la massima umiltà possibile!), su un punto importante citato in entrambi i documenti; entrambe le tesi, infatti, fanno esplicito riferimento all’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011.

Cerchiamo quindi, con l’aiuto di ‘esperti del settore’, di capire insieme di cosa si tratta.

L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, sottoscritto con Confindustria da CGIL,CISL e UIL, si pone (o vorrebbe porsi) come obiettivo, quello di definire dei criteri condivisi – fra le parti firmatarie – per definire l’effettiva rappresentatività dei sindacati (argomento ripreso nel protocollo di intesa siglato il 31 maggio 2013) e per la regolamentazione della contrattazione collettiva di secondo livello nel settore.

accordorappresentanza5La prima cosa che dobbiamo dire è che, allo stato attuale, tale accordo ha validità esclusivamente in quei settori produttivi del paese che sono riconducibili, come categoria datoriale, a Confindustria. L’accordo di per sé, attualmente, non trova estensione nelle altre categorie datoriali (per esempio, ABI, ANIA, ecc). Di riflesso, tale accordo ha un secondo fine (non da poco) e cioè quello di cercare di regolamentare una materia, quella della effettiva rappresentanza sindacale nel settore privato, in una totale assenza di legislazione specifica da parte del nostro Parlamento.

L’accordo, in attesa che i nuovi CCNL che verranno sottoscritti definiscano le procedure, dà la possibilità di sottoscrivere contratti aziendali in deroga alla contrattazione nazionale, qualora vi siano interessi da tutelare come in caso di situazione di crisi o in presenza di aumento di investimenti per aumentare la produttività e l’occupazione. Le deroghe potranno riguardare “la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro, rimanendo escluso l’aspetto retributivo”

accordorappresentanza4In alcuni articoli del ‘Il sole 24 ore’ del luglio del 2011 e successivi, viene  analizzato il merito dell’accordo; si esprime qualche dubbio sul fatto che questo accordo possa determinare, da solo, la concretizzazione di un percorso di riforma iniziato con la firma del protocollo del 1993. Sembrerebbe però che gli articoli 5 e 6, seppur in mancanza di una legge dello Stato e con tutti i limiti di cui soffrono, dimostrino che vi sarebbe una volontà (o maturità) imprenditoriale, sindacale e politica, per applicare il principio maggioritario nelle relazioni industriali.

Il baricentro del nuovo sistema delle relazioni industriali che si andrebbe così a delineare, resta il contratto collettivo di secondo livello pur riconoscendo pieno valore al CCNL; l’accordo interconfederale si preoccupa di garantirne l’esigibilità. La parte dell’accordo, relativa alla ‘tregua sindacale’ (moratoria degli scioperi), avrebbe come scopo quello di evitare che sigle sindacali che si oppongono alla firma di un accordo possano godere di posizioni di vantaggio, di una maggiore “capacità conflittuale”, rispetto a quelle che, sottoscrivendo gli accordi, accettano le clausole di ‘tregua sindacale’; l’accordo infatti, per evitare il prolungarsi all’infinito delle vertenze, obbliga le aziende ad avviare le trattative almeno sei mesi prima della scadenza del contratto che deve essere rinnovato, facendo però scattare in questo periodo la ‘tregua sindacale’ vietando iniziative che danneggino la controparte. Tuttavia c’è da dire che il vincolo imposto dalla tregua, ha validità esclusivamente per i sindacati firmatari e non per i singoli lavoratori.

LAVORO: FORNERO A PRESENTAZIONE LIBRO 'ORIENTAMENTO E MONDO DEL LAVORO'L’accordo tenta di porre fine alle lotte sugli accordi separati nelle aziende: se il contratto aziendale che si intende sottoscrivere, viene approvato dalla maggioranza dei sindacalisti eletti in azienda (RSU) diventerà vincolante per tutti i lavoratori. Se invece i firmatari saranno sindacalisti aziendali (RSA), il contratto aziendale potrà avere efficacia vincolante per tutti se sottoscritto dai sindacati che rappresentano la maggioranza dei lavoratori  (computato attraverso la conta delle deleghe sindacali e relativo versamento dei contributi sindacali certificati dall’INPS). In questo caso, a tutela della minoranza, l’accordo potrà essere soggetto a referendum a richiesta anche di una delle organizzazioni sindacali aderenti all’accordo interconfederale oppure del 30% dei lavoratori dell’azienda.

L’accordo interconfederale, inoltre, rende pienamente operativa la detassazione del premio di produttività nei contratti sottoscritti a livello aziendale o territoriale.  La novità introdotta dall’intesa, è rappresentata dalla possibilità di estendere il beneficio fiscale alle aziende prive di rappresentanza sindacale. La detassazione si applica sulla quota di retribuzione corrisposta, con le eventuali maggiorazioni, come conseguenza della modifica dell’orario di lavoro, tendente all’aumento della produttività. Le parti hanno previsto che in assenza di RSA o RSU, una impresa possa avvalersi dell’assistenza fornita dalle associazioni aderenti al sistema confindustriale, per stipulare un accordo aziendale con le federazioni territoriali di categoria dei sindacati, da applicare a tutti i dipendenti.

Sull’accordo non mancano poi le polemiche relative alla presunta incostituzionalità dello stesso. Secondo l’interpretazione di alcuni giuristi, l’accordo parrebbe essere in contrasto con l’art. 39 della Costituzione che afferma che l’organizzazione sindacale è libera; quindi le regole contenute nell’accordo, avrebbero valenza solo per le parti contrattuali stipulanti e non potrebbero essere intese come di generale applicazione.

accordorappresentanza2Tuttavia la Costituzione italiana (e sempre all’art. 39), afferma che i contratti collettivi di lavoro sono validi obbligatoriamente ‘erga omnes’: vuol dire che i contratti si applicano a tutti i lavoratori appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce, indistintamente. Ma non è mai stata fatta una legge – legge che la Cgil chiede da decenni – per garantire l’effettiva ‘rappresentatività’ dei soggetti che firmano i contratti, anche se sono tante le proposte di legge in merito giacenti nelle commissioni Lavoro del Parlamento. Ne deriva, per fare l’esempio più attuale e clamoroso, che – come è successo nel gruppo Fiat – se la Fiom-Cgil non firma un contratto, si apre un contenzioso infinito, pur se i tribunali danno ragione alla Fiom. Così, la pratica detta degli ‘accordi separati’, e cioè firmati solo dal gruppo Fiat (uscito da Confindustria anche per questo motivo) con alcuni sindacati (Fim-Cisl, Uilm, Uglm e Fismic, cioè ‘tutte’ le sigle tranne la Fiom-Cgil) ha messo la Fiom, e di conseguenza la Cgil, nell’angolo, e per molti anni.

Inoltre, sempre secondo questa logica interpretativa, l’accordo cozzerebbe con il disposto dell’art. 14 della L.300/70 (statuto dei lavoratori) secondo il quale “il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro”.  Questo elemento determinerebbe una “debolezza” intrinseca all’accordo stesso. Essendo l’accordo stato firmato soltanto da Confindustria (per la parte datoriale) e da CGIL,CISL e UIL per la parte sindacale, i contenuti sarebbero applicabili solo alle imprese che si rifanno a Confindustria e ai lavoratori iscritti alle sigle sindacali firmatarie. Non potrebbe essere esteso invece ai non iscritti e agli iscritti ad organizzazioni sindacali non aderenti alle predette Confederazioni e/o all’accordo.

Secondo una intervista del 2011 rilasciata dal sociologo Luciano Gallino, che analizzava i cambiamenti con un occhio sulla vicenda FIAT,  il principio per cui i lavoratori hanno comunque il diritto di esprimere assenso o dissenso mediante il voto, principio ribadito con particolare forza dallo statuto della stessa Cgil, potrebbe venire limitato dal contenuto dell’accordo stesso qualora un accordo aziendale venisse firmato da una rappresentanza sindacale maggioritaria certificata.

Tuttavia a tal proposito, è utile ricordare che il protocollo di intesa del maggio 2013 è intervenuto su questo punto, affermando che in assenza di una piattaforma unitaria per il rinnovo, la parte datoriale favorirà la piattaforma presentata dalle organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 50% +1, previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori.

Secondo Pietro Ichino, l’accordo avvia a conclusione la lunghissima fase del cosiddetto “diritto sindacale transitorio”  e volta pagina rispetto ad un triennio passato (2008-2011) durante il quale la politica del lavoro si è adoperata per costruire un sistema di relazioni industriali tendente all’esclusione della CGIL; l’accordo così sottoscritto detta le regole di democrazia sindacale per aprire ad una nuova stagione di unità d’azione fra le tre confederazioni maggiori, pur tuttavia consapevoli che le divergenza fra CGIL e le altre due Confederazioni sindacali non sono ancora del tutto sanate.

Sempre Ichino ci spiega che la misurazione della rappresentatività al livello aziendale è oggetto del quarto e del quinto capoverso dell’accordo. In sintesi si afferma che  dove i tre sindacati vanno d’accordo, si attivano le rappresentanze sindacali unitarie (RSU), previste e disciplinate dal protocollo del 23 luglio 1993 (protocollo che è espressamente richiamato e, dunque, per questo aspetto rimane in vigore); dove i tre sindacati non vanno d’accordo, si attivano le rappresentanze sindacali aziendali (RSA) previste e disciplinate dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori del 1970.

Poiché l’accordo non prevede una modifica dell’articolo 19 dello Statuto – salva la previsione del limite triennale di durata della carica di rappresentante sindacale aziendale –, in questo secondo caso la rappresentatività dei sindacati non è misurata: donde la perdurante distribuzione dei rappresentanti sindacali in misura pari tra tutti i sindacati accreditati a norma dell’articolo 19 e la necessità di una disciplina particolare in materia di contratto aziendale stipulato da una o più RSA. Per quanto concerne la contrattazione collettiva,  per la legittimazione a negoziare sul piano nazionale, l’accordo stabilisce soltanto una soglia minima di rappresentatività (il  5%); non prevede invece alcuna soglia per la stipulazione del contratto di settore, non precludendo quindi in alcun modo l’efficacia del contratto collettivo nazionale anche se questo è stato sottoscritto da una coalizione sindacale minoritaria del settore.

Da uno studio curato dal Prof. Carlo Zoli (docente ordinario di diritto del lavoro all’università di Bologna), con l’accordo si pone l’attenzione sulla grande rilevanza che questo riveste in chiave politico-sindacale per la ritrovata unitarietà nell’azione delle tre Confederazioni, soprattutto in un momento di così grande crisi economica del Paese, che è preludio per la costruzione di un sistema di relazioni industriali basate su serie regole di governo del sistema contrattuale.

L’accordo affronta per la prima volta e direttamente, la questione da tempo dibattuta della rappresentatività sindacale a livello nazionale di categoria applicando una soluzione già da tempo sperimentata nel settore pubblico ma che nel mondo “privato” viene considerata come una autentica svolta. Infatti, nel settore privato viene per la prima volta introdotto il concetto di reale rappresentatività certificata e non più affidata al reciproco riconoscimento delle parti. Non solo: un’altra rilevante novità è data dall’apertura compiuta nei confronti di organizzazioni diverse da quelle firmatarie dell’accordo interconfederale, ammesse al tavolo negoziale purché in grado di superare la soglia minima del 5% (degli iscritti certificati) e a condizione che partecipino alle elezioni delle RSU.

Questo sistema punta ad una maggiore stabilità dell’ordinamento sindacale. In buona sostanza, viene centralizzato il ruolo della capacità, delle organizzazioni sindacali di settore, di diffondere le RSU nei luoghi di lavoro. Contestualmente, se da un lato a tutte le organizzazioni sindacali viene data la possibilità di partecipare alle trattative (fermo restando la soglia minima del 5%), a nessuna di esse può essere attribuito un potere di veto. Questa situazione renderebbe di fatto impossibile creare situazioni di stasi nelle fasi della trattativa.

Oltretutto, con il protocollo di intesa del maggio 2013, viene ulteriormente limitato l’abuso di potere da parte di minoranze sindacali che si troverebbero nell’impossibilità di stipulare accordi in mancanza di qualsiasi criterio di rappresentatività democratica. Ciò obbligherà le Organizzazioni Sindacali ad una consultazione vincolante e certificata sia sugli accordi sia sulle piattaforme.

Da non dimenticare tuttavia che l’insieme di regole contenute nell’accordo dovranno trovare applicazione nei CCNL tramite l’adozione di specifici regolamenti per i loro rinnovi, come sancito dall’intesa fra CGIL, CISL e Uil allegata all’accordo interconfederale. Questo sancisce pienamente la funzione fondamentale del contratto nazionale di categoria. A tal proposito è la stessa Susanna Camusso che afferma che l’accordo ristabilisce la gerarchia delle fonti, che viene esplicitamente affermata, assumendo come punto di riferimento il contratto nazionale che dovrà prevedere ciò che può essere delegato al secondo livello di contrattazione, impedendo così che la derogabilità sin qui praticata dal secondo livello svuotasse progressivamente il contratto nazionale;in attesa che i rinnovi dei contratti nazionali stabiliscano i temi della contrattazione di secondo livello, l’accordo prevede “il consenso delle organizzazioni sindacali su possibili intese adattative del contratto aziendale”.

Anche sul fronte della contrattazione collettiva nazionale non mancano le riflessioni: è possibile mantenere in vita, in Italia, un sistema di relazioni industriali basato sull’esistenza di una moltitudine di CCNL? Naturalmente l’attuale situazione costituisce una forte frammentazione del mondo della rappresentanza sindacale e dei diritti nelle varie categorie. Un sistema ormai diventato fragile sotto i colpi di una crisi economica fra le più dure dalla metà del secolo scorso.

Ma quali sono i modelli europei con i quali possiamo e, forse, dobbiamo confrontarci? Facciamo qualche esempio a mio avviso significativo:

  • Modello tedesco: per capire il sistema di relazioni industriali in Germania, prendiamo spunto da un articolo di Enrico Grazzini (analista economico) pubblicato su “MicroMega on line”. In Germania i rappresentanti dei lavoratori – eletti da tutti i lavoratori, iscritti o meno al sindacato – partecipano al “board” delle grandi e medie imprese, in posizione (quasi) paritaria con gli azionisti (cogestione). Il tutto nasce nel 1951 quando un referendum indetto dal potente sindacato DGB dimostrò che oltre il 95% dei lavoratori del settore siderurgico e minerario era disposto a scioperare per ottenere i diritti di cogestione. L’introduzione della cogestione venne duramente avversata dalla Confindustria tedesca che fu costretta però a capitolare dietro la spinta della politica social-democratica. Nel 1976 l’istituto della cogestione venne esteso alle aziende nazionali ed estere di tutti i settori industriali con più di 2000 addetti (sotto i 2000 i lavoratori possono eleggere un terzo dei rappresentanti nei consigli di sorveglianza). Così in Germania per legge dello Stato il lavoro come tale (cioè senza che i lavoratori siano obbligati a partecipare al capitale e agli utili aziendali) è rappresentato nei consigli di sorveglianza che definiscono le strategie delle imprese, nominano i manager e controllano il loro operato. E’ interessante notare come, in Italia la vicenda FIAT, ben cinquant’anni dopo, abbia portato l’azienda torinese a seguire una strada diametralmente opposta. Comunque, alcuni recenti studi indipendenti condotti sulle aziende tedesche, sia quotate in borsa che non, indicano chiaramente che le aziende cogestite non solo non soffrono a causa della gestione congiunta e del potere duale, ma che anzi guadagnano in competitività rispetto a quelle governate secondo il modello proprietario e gerarchico tradizionale. La condizione del successo è però che non siano (solo) i sindacati a decidere chi siederà nel “board” aziendali ma i lavoratori stessi. Comparando i paesi europei più industrializzati, emerge che la cogestione certamente non danneggia le aziende e l’economia, come invece vorrebbero i neoliberisti accecati dall’ideologia antisindacale e antisocialista e a favore del potere monocratico di azionisti e manager. Sul piano giuridico in Italia la co-determinazione sembra possibile grazie all’articolo 46 della Costituzione (quello forse meno applicato) per cui “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende”. Sul piano politico occorrerebbe considerare che la questione della democrazia economica potrebbe interessare tutta l’opinione pubblica. Infine, in Germania viene attuata la così detta “Dinamica del consenso” che porta ad una drastica riduzione dello “sciopero politico”. Avendo (i Sindacati) più strumenti per partecipare alle decisioni aziendali, gli scioperi non acquistano natura politica. Si cerca, quindi, il consenso al posto del conflitto (con dei costi sociali molto inferiori rispetto ad altri modelli).
  • Modello francese: stando alle fonti facilmente reperibili on line, sappiamo che il modello francese, sin dal secondo dopo guerra, presenta una serie di regole legislative atte a individuare i soggetti legittimati a sedersi al tavolo delle trattative; vengono definite per legge le condizioni di validità  ed efficacia del contratto collettivo e fissa il rapporto che intercorre fra i vari livelli della contrattazione collettiva. Tuttavia, la Francia è caratterizzata da un bassissimo livello di sindacalizzazione fra i lavoratori, circa il 6% contro il 25% della media europea. Motivo per cui, il legislatore francese ha introdotto una serie di norme per riformare il sistema della rappresentanza sindacale (riforma ad oggi ancora incompiuta) finalizzate ad incentivare la partecipazione dei lavoratori all’attività sindacale e a conferire una legittimazione maggiore all’attività svolta dalle organizzazioni sindacali più rappresentative. La legge francese nel 2008 è intervenuta per determinare i criteri di rappresentatività delle organizzazioni sindacali operanti nel paese, eliminando la presunzione di rappresentatività ed imponendo a ciascun sindacato, che voglia usufruire delle prerogative attribuite dalla legge ai sindacati rappresentativi, di dimostrare la propria rappresentatività dando la prova di possedere tutti i seguenti requisiti: indipendenza, un adeguato numero di iscritti, un adeguato numero di deleghe dei lavoratori per la riscossione dei contributi sindacali, un adeguato numero di voti ottenuti alle elezioni degli organi di rappresentanza dei lavoratori, un’adeguata influenza sui lavoratori iscritti, una gestione finanziaria trasparente. In virtù delle nuove regole, la validità del contratto collettivo discende dal concorso di due fattori: a) che le organizzazioni stipulanti nel loro complesso abbiano raccolto almeno il 30% dei voti espressi dai lavoratori a favore delle organizzazioni rappresentative al livello cui si riferisce il contratto (nazionale, di gruppo, di impresa o di stabilimento); b) che non vi sia l’opposizione delle organizzazioni sindacali che nel loro complesso abbiano raccolto, a quelle medesime elezioni, la maggioranza dei voti espressi dai lavoratori per le organizzazioni rappresentative.

 

Questi due esempi credo siano sufficienti a dimostrare quanto importante sia la volontà politica – da cui discende poi l’iniziativa parlamentare e quindi legislativa- di porre in essere regole chiare e funzionati per il sistema delle relazioni industriali. Altresì importante è la volontà Sindacale di procedere celermente su una strada di riforma del sistema nel suo complesso.

Concludendo, possiamo affermare che l’accordo (e collegato protocollo di intesa) costituisce senz’altro un punto di partenza e di riferimento per alcune questioni centrali del diritto sindacale italiano pur presentando un ambito di applicazione circoscritto (al settore dell’industria) e, producendo effetti giuridici limitati. Insomma, appare chiaro come le finalità cui tende l’accordo meritino grande attenzione così come grande attenzione meritino le insidie e le lacune in esso certamente presenti nonché il problema politico legato all’assenza di una adeguata legislazione in materia.

 

Articolo di Giovanni Fedele
giovanni.fedele@intesasanpaolo.com

 

 

 

 

 

Riferimenti e fonti:

http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2013-04-24/libera-accordi-produttivita-livello-103654.shtml?uuid=AbxfV6pH&fromSearch

http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2012-06-16/ripartiamo-accordo-giugno-081700.shtml?uuid=AbN5Z8sF&fromSearch

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-07-21/buon-inizio-accordo-interconfederale-063842.shtml?uuid=Aa0KmspD&fromSearch

http://www.carblogger.it/2011/07/07/cgil-fiom-e-fiat-secondo-gallino/

http://www.diritto.it/docs/32047-l-accordo-interconfederale-28-giugno-2011

http://www.pietroichino.it/?p=15671

http://www.huffingtonpost.it/2014/01/17/cgil-rappresentanza_n_4619252.html

http://keynesblog.com/2012/04/06/il-modello-tedesco-come-funziona-davvero/

http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=1306&Itemid=67

 


mercoledì 5 marzo 2014 - Approfondimenti, Giovanni Fedele -
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