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Scrivere al femminile

Caledario8marzo2014Il consueto calendario dell’8 marzo quest’anno è dedicato ad alcune delle più rappresentative autrici della letteratura italiana, allo scopo di far riscoprire o conoscere la letteratura creata dalle donne.

Questa particolare esigenza è nata dopo che su un quotidiano è stata pubblicata una notizia che riportava come, durante un test d ingresso all’università, alla richiesta di elencare venti autori italiani del ‘900, nessuno studente avesse  nominato una donna.

E’ difficile stabilire se questo risultato sia stato condizionato dalla forma in cui era espressa la domanda o dal fatto che ancora oggi le donne  trovino  difficoltà nell’affermarsi nei vari campi, compresa la letteratura, ma (da parte di chi vi scrive), questo è stato un appetitoso spunto per parlare di letteratura al femminile.

Il mio intento non è però quello di celebrare le scrittrici ( di questo si occupa appunto il nostro calendario), ma è molto più semplicemente un consiglio di lettura.

Come moltissime persone, anch’io amo viaggiare e, nella mia personale preparazione di un viaggio, la lettura di romanzi o racconti provenienti dalla meta che mi sono prefissa, assume un peso piuttosto rilevante.

 suadEd è stata la prospettiva di un viaggio tra Libano, Palestina e Giordania, a farmi conoscere  “Sharon e mia suocera” della scrittrice palestinese Suad_Amiry, libro che ho apprezzato per la velocità del racconto e per la sua apparente leggerezza.

Non si tratta di un romanzo, ma di un diario di guerra che, come scrive la stessa autrice “… intendeva essere una forma di terapia”. Infatti, gli elementi scatenanti per la stesura di questo libro sono state le invasioni di Ramallah da parte dell’esercito israeliano, avvenute nel 2001 e 2002. Ramallah è la città palestinese dove vive la scrittrice, ma è diventata soprattutto la città simbolo della lotta contro l’occupazione israeliana, nota anche per aver ospitato il quartier generale di Yasser_Arafat, leader storico dell’OLP, organizzazione alla quale appartiene anche la scrittrice.

Durante l’occupazione di Ramallah, i palestinesi hanno vissuto un lungo coprifuoco imposto dal governo israeliano di Ariel_Sharon, durante il quale Suad Amiry ha cercato (con mille incredibili difficoltà) di “recuperare” la suocera novantenne che abitava vicino alla Muqataa (quartier generale di Arafat) per portarla a vivere con sé.

Lo stress seguito alla presenza dei militari israeliani all’esterno della casa e l’ingombrante presenza della suocera al suo interno, hanno portato Suad Amiry ad inviare mail agli amici in cui raccontava, con toni ora seri ora divertiti, quello che stava accadendo.

Leggendo la quarta di copertina ci si aspetterebbe un racconto incentrato sull’aspetto familiare, dato che anche dal titolo alla suocere viene riservato un ruolo di rilievo. In realtà alle punzecchiature tra nuora e suocera è riservato ben poco spazio, e le loro vicende fanno piuttosto da sfondo a tutto il resto.

La condizione della popolazione palestinese è descritta non attraverso una storia fittizia, i personaggi non sono inventati ed il lettore, senza alcuna introduzione storica, viene scaraventato nel tempo (nel 1981, 1987,1995, 2001 e 2002) in un excursus temporale nel quale la questione palestinese sembra che esista da sempre  per le popolazioni coinvolte, mentre , soprattutto per gli occidentali, sembra non esista affatto.

L’elemento distintivo della scrittura di Amiry è senza dubbio l’ironia che viene ritenuta dall’autrice un indispensabile strumento di sopravvivenza per coloro che vivono sotto un’occupazione militare: secondo la scrittrice palestinese, quando si è costretti ad affrontare una situazione tragica, si cercano delle forme di protezione. Si può decidere di non vedere nella sua totalità la situazione in cui ci si trova perché una visione troppo lucida rischierebbe di di essere troppo  opprimente, oppure si può ridere di sé stessi, cercando di rendere comunicabile anche agli altri, ciò che altrimenti sarebbe insopportabile.

Anche la ricorrente domanda “se questa è vita”, titolo dello scritto pubblicato  in seguito e continuazione di questo libro (che infatti ora viene pubblicato insieme), utilizzata spesso dalla protagonista per spiegare tutti gli ostacoli che incontra nella vita di tutti i giorni, è permeata di sarcasmo tagliente.

Le incredibili (almeno per noi che  fortunatamente non viviamo quella condizione) vicissitudini che giornalmente deve affrontare per gli spostamenti da un luogo all’altro sottostando al controllo dei diversi check point israeliani, sono emblematici della condizione palestinese. Non a caso il racconto inizia con il fermo della scrittrice da parte della polizia israeliana mentre arriva all’aeroporto dopo un viaggio all’estero.

Ogni semplice azione quotidiana, come per esempio portare il cane dal veterinario, o il rilascio del documento di identità (ottenuto dalla scrittrice dopo un’attesa di ben sette anni) diventa difficile nella condizione di chi vive perennemente nel conflitto che da troppo tempo infiamma il medio oriente.

Tutto questo l’autrice lo fa in un modo che è lieve e profondo allo stesso tempo, come testimoniano queste poche righe:

“non sono mai riuscita a capire come facciano gli Israeliani a bere quel terribile caffè. Mi è stato detto che, non avendo il tempo di bollire insieme l’acqua ed il caffè, l’esercito si limita a versa dell’acqua tiepida sul caffè macinato e a bere fango. Va da sé che non hanno tempo, perché passano ventiquattr’ore su ventiquattro a vessarci. Se smettessero di tormentarci, finirebbero probabilmente per avere una vita migliore e una buona tazza di caffè al posto del fango. Prendete gli Italiani, i Turchi e i Francesi: adesso che si sono accorti che si può vivere benissimo senza occupare le terre degli altri, hanno tutti un ottimo caffè.”

LessicoFamigliareLa lettura di questo libro mi ha fatto ripensare ad un altro romanzo molto conosciuto , scritto cinquant’anni prima in Italia da Natalia_Ginzburg: “Lessico famigliare”, storia della famiglia Levi (la famiglia dell’autrice) ambientato a Torino fra gli anni Trenta e Cinquanta.

Anche in questo caso non si tratta di un vero e proprio romanzo e, come dice la stessa autrice nella prefazione, gli avvenimenti ed i personaggi narrati sono tutti assolutamente autentici.

Attraverso la memoria, non solo vengono ripercorse le vicende della famiglia, ma soprattutto le parole e le frasi del gergo familiare assumono un ruolo importante, testimoniato proprio dalla scelta del titolo, linguaggio che rappresenta quasi un codice di riconoscimento della famiglia della Ginzburg.

Il mondo intellettuale torinese, negli anni della sua infanzia ed adolescenza, si radunava spesso in casa levi: Vittorio Foa, Adriano Olivetti, Filippo Turati, Anna Kuliscioff, sono alcuni degli amici della famiglia, tanto che Alberto Asor Rosa, scrivendo una recensione di questo libro, puntò il dito su un presunto “snobismo” della Ginzburg, accusata di elencare, con assoluta naturalezza, e chiamandoli semplicemente per nome, un notevole elenco di intellettuali e politici della scena torinese di quegli anni.

In effetti, la famiglia Levi non era una famiglia comune: di padre ebreo (Giuseppe_Levi) e madre cristiana, era una famiglia colta e fortemente antifascista che lottò contro la dittatura di Mussolini, pagandone dei prezzi molto pesanti.

Il padre, docente all’Università di Torino, era un biologo molto affermato (fu il maestro di Rita Levi Montalcini) e fu costretto ad abbandonare l’università dopo la promulgazione delle aberranti leggi razziali imposte dal regime mussoliniano, fu incarcerato (insieme a due dei suoi figli), proprio per l’impegno antifascista. Anche Natalia pagò prezzi molto alti: fu costretta al confino con il suo primo marito , Leone_Ginzburg (che fu tra i fondatori della casa editrice Einaudi) che, aderente alla resistenza fu arrestato e morì nel 1944 durante la prigionia.

ginzburgEppure, nonostante tutti  questi tragici eventi, anche in questo caso l’autrice comunica in modo lieve, attraverso uno sguardo dal basso, concreto, legato alle cose, riuscendo a conservare la semplicità e la freschezza propri dell’età giovanile.

Questi due libri sono stati scritti in epoche diverse, in paesi differenti, eppure i punti in comune non mancano: entrambe le scrittrici fanno parte dell’elite intellettuale del loro paese, sono tutte e due impegnate nella lotta di liberazione  del proprio popolo, eppure le loro culture di appartenenza ( quella araba e quella ebraica) si trovano da troppo tempo in conflitto.

A mio parere, l’elemento di maggiore distanza tra le due opere è però la sensazione che il lettore tra dai due libri: mentre nell’opera di Suad Amiry, nonostante l’ironia ed il sarcasmo, si senta molto bene l’oppressione perpetuata nei confronti dei palestinesi, in “Lessico famigliare” la percezione della pesantissima dittatura fascista è meno evidente, forse per una volontà di rimozione dei dolori patiti, o forse per preservare lo spirito dei ricordi della sua famiglia, forse la Ginzburg con quest’opera ha voluto lanciare un chiaro messaggio, di fronte al disperdersi della propria famiglia a causa della guerra, delle morti, della lontananza, come traspare da queste parole:

“Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta fra noi una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: “non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “ de cosa spussa l’acido solfidrico”, per far ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, la nostra infanzia e giovinezza, legate indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone…

… Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti più diversi della terra…”

Articolo di Gloria Pecoraro
gloria.pecoraro@intesasanpaolo.com


mercoledì 5 marzo 2014 - Gloria Pecoraro, Letteratura -
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